Ma cosa sta succedendo in Spagna? E, in tutto questo, cosa c’entra il calcio? Per spiegare bene la questione catalana e il fondamentale ruolo del Barcellona (“mès que un club”) è utile pubblicare uno stralcio di “Cambiare il mondo con un pallone”, libro nel quale Lorenzo Zacchetti si occupa dello stretto rapporto tra calcio e politica. Nel capitolo “Le due anime della Spagna” la questione emerge con grande forza
Il 16 febbraio del 1936, la Spagna si recò alle urne e scelse il cambiamento. Le elezioni politiche premiarono il Fronte Popolare, la principale forza di sinistra, e punirono il precedente governo di destra, colpevole di aver trascinato il paese sull’orlo del baratro socio-economico. Dopo la caduta della monarchia di Alfonso XIII, mandato in esilio, il partito socialista e quello repubblicano avevano provato a modernizzare la Spagna della Seconda Repubblica, ma tutta la loro opera era stata vanificata nel corso del “biennio nero”, che aveva visto le forze conservatrici e reazionarie passare un colpo di spugna su ogni riforma.
L’attenzione del nuovo governo progressista era focalizzata in particolare sui quattro milioni di contadini ridotti alla fame e sull’ingerenza della chiesa cattolica nella vita della Repubblica. I primi provvedimenti adottati per ribaltare la situazione crearono una forte tensione nella destra clericale e, quando i militanti socialisti uccisero l’ex ministro Josè Calvo Sotelo, i nazionalisti diedero il via al golpe armato. A guidarlo fu Francisco Franco, generale conservatore e anticomunista che dopo il successo del Fronte Popolare era stato mandato in esilio alle Canarie. Franco si mise alla guida dei ribelli che erano rientrati in patria passando dal Marocco ed attraversando lo stretto di Gibilterra, dando così il via alla guerra civile. Dalla sua parte c’erano i generali spagnoli Emilio Sanjurjo ed Emilio Mola, ma anche l’Italia di Mussolini e la Germania di Hitler, politicamente affini a quella che veniva definita “una crociata antibolscevica”.
A dare man forte alla resistenza spagnola, invece, si formarono le Brigate Internazionali, milizie antifasciste formate da combattenti di tutto il mondo (in prevalenza europei, ma anche cubani, cinesi e arabi). Nella forza multinazionale non mancava la componente italiana, che annoverava tra le proprie fila Pietro Nenni, Luigi Longo, Giovanni Pesce, Pietro Pajetta e Palmiro Togliatti. Ai volontari che hanno preso parte alla guerra civile spagnola è dedicato il brano “If you tolerate this, your children will be next”, inciso nel 1998 dalla band gallese Manic Street Preachers e strabordante di citazioni. Il titolo, per esempio, venne ripreso direttamente da un manifesto repubblicano dell’epoca, nel quale si mostrava un bambino ucciso dalle bombe dei nazionalisti spagnoli, accompagnato dallo slogan “Se tollerate questo, poi toccherà ai vostri figli”. Una delle frasi più d’effetto del testo (“If I can shoot rabbits, then I can shoot fascists”, ovvero “Se posso sparare ai conigli, allora posso sparare anche ai fascisti”) è stata attribuita ad un allevatore partito volontario, che l’avrebbe pronunciata in un’intervista. Un’altra frase molto significativa è “Holes in your head today, but I’m a pacifist. I’ve walked Las Ramblas, but not with real intent” (“Quest’oggi ci sono dei fori nella vostra testa, ma io sono un pacifista. Ho camminato per le Ramblas, ma senza una reale intenzione”) si riferisce allo spirito dei democratici partiti per aiutare gli spagnoli a debellare la dittatura, eppure impreparati alle atrocità della guerra civile. Il verso è stato ispirato dal libro “Omaggio alla Catalogna” (Lawrence and Wishart, 1938), contenente il diario della guerra civile scritto da George Orwell, dato che anche l’autore di “1984” e “La fattoria degli animali” faceva parte delle Brigate Internazionali.
Dopo tre anni di durissime battaglie e circa un milione di morti (compreso il grande poeta Federico Garcia Lorca, anch’egli repubblicano), Franco prese il potere e lo difese con una durissima repressione di ogni forma di dissenso.
Il 1936 era anche l’anno delle Olimpiadi, che il primo agosto vennero regolarmente aperte a Berlino, sebbene molte nazioni ne avessero chiesto lo spostamento in seguito all’ascesa al potere di Adolf Hitler. Consigliato da Joseph Goebbels, il suo ministro della Propaganda, il Führer trasformò i Giochi in una celebrazione della superiorità della razza ariana sul resto del mondo. La Germania fece il record di medaglie razziandone ben 89, delle quali addirittura 33 d’oro. Il segreto del successo teutonico fu la politica del “dilettantismo di Stato”: a differenza dei loro avversari, gli atleti tedeschi vennero sovvenzionati da fondi pubblici, che permisero loro di allenarsi con maggior cura, non dovendo lavorare per mantenersi.
Nel calcio, l’oro venne conquistato dall’Italia che Pozzo aveva assemblato convocando solo studenti che non avevano mai giocato nella nazionale maggiore e che quindi non potevano essere etichettati come “professionisti” (qualifica che peraltro non avevano nemmeno i loro colleghi campioni del mondo, almeno sul piano formale). Grazie ad una doppietta di Annibale Frossi, l’occhialuto capocannoniere del toreno, l’Italia vinse la finale contro l’Austria, nazione in procinto di essere annessa al Reich ed arrivata in fondo al torneo in maniera decisamente controversa. Nei quarti di finale, gli austriaci erano stati battuti per 4-2 dal Perù, ma ottennero la ripetizione della gara sostenendo di essere stati malmenati dai giocatori avversari ed intimiditi dal pubblico che aveva invaso il campo (pacificamente, ma l’Austria sostenne di aver visto almeno una pistola tra le mani dei tifosi). Per protesta, i sudamericani non si presentarono alla seconda partita, perdendola a tavolino. Nella lotta greco-romana, la Germania era rappresentata da Werner Seelenbinder, attivista comunista particolarmente sgradito a Hitler, il quale non aveva potuto escluderlo dai Giochi solo per la grande popolarità della quale l’atleta godeva tra i suoi connazionali. Tre anni prima, Seelenbinder aveva vinto i campionati di lotta alla presenza del Führer e si era rifiutato di fare il saluto romano durante l’esecuzione dell’inno. In vista delle Olimpiadi berlinesi, ebbe addirittura il coraggio di minacciare Hitler ventilando una contestazione ancora più palese: “Se salirò sul podio, farà bene a non presentarsi allo stadio”. Seelenbinder arrivò soltanto quarto, ma la sua battaglia al regime sarebbe continuata attraverso il suo ingresso nella Resistenza. Catturato dalle SS, venne decapitato nel campo di concentramento di Brandenburg-Görden nel 1944.
Berlino ’36 passò alla storia soprattutto per le imprese dell’americano Jesse Owens, assoluto protagonista con quattro medaglie d’oro nei 100 metri, nei 200 metri, nel salto in lungo e nella staffetta 4×100. I trionfi dell’atleta di colore inflissero un duro colpo ai fondamenti razzisti del nazionalsocialismo, al punto che per anni si favoleggiò del mancato riconoscimento del suo successo sportivo da parte di Hitler, che non lo avrebbe salutato. Fu lo stesso Owens a smentire tale versione della vicenda nella sua autobiografia, pubblicata nel 1970: “Quel giorno, dopo essere salito sul podio del vincitore, passai davanti alla tribuna d’onore per rientrare negli spogliatoi. Il cancelliere tedesco mi guardò, si alzò in piedi e mi salutò con un cenno della mano. E io feci altrettanto. Penso che gli scrittori mostrarono del cattivo gusto nel criticare l’uomo del momento in Germania”.
Curiosamente, Owens era solito intrattenersi tra una gara e l’altra proprio con i calciatori italiani. “Nei cinque giorni che passarono tra la semifinale e la finale contro l’Austria eravamo molto nervosi”, rivelò Pozzo. “Per fortuna ci diede una mano quel negro che vinceva tutte le medaglie. Abitava nel villaggio olimpico in un’altra casetta, a due passi da noi. Veniva a visitarci, dopo cena, con una chitarra ed una fisarmonica. E suonava… e ballava la danza del ventre. Gli piaceva la nostra compagnia, perché diceva che gli italiani ridevano sempre… e così rumorosamente”.
Per Hitler come per Mussolini, lo sport era uno strumento necessario per legittimare l’esercizio del potere. Francisco Franco si inserì sulla loro stessa rotta, con l’unica eccezione rappresentata dal fatto che il regime tedesco e quello italiano sfruttavano l’immagine delle rispettive nazionali, mentre i fascisti spagnoli puntarono tutto sul Real Madrid. Al termine della guerra civile, il Caudillo conferì l’incarico di rilanciare il club calcistico all’ex giocatore Santiago Bernabeu, che durante la sua lunghissima presidenza (35 anni) fece costruire lo stadio che ancora oggi porta il suo nome e la Ciudad Deportiva, il vecchio centro sportivo che le “merengues” hanno ceduto nel 2001 per rientrare di parte dei loro pressanti debiti.
Promotore della nascita della Coppa dei Campioni, Bernabeu guidò la squadra a vincerne sei edizioni, da aggiungere alla Coppa Intercontinentale del 1960, a due Coppe Latine, a sedici titoli della Liga e a sei Coppe di Spagna. Fondata nel 1902, la polisportiva capitolina ottenne l’appellativo di “Real” solamente diciotto anni dopo, in seguito alla benedizione di Alfonso XIII. Per questo, ancora oggi, gli spagnoli si riferiscono alla squadra chiamandola “el Madrid”: l’abbreviazione “Real”, comunemente usata da noi italiani, è invece foriera di confusione con le tante altre società che hanno avuto lo stesso appellativo da parte della casa regnante.
La forte identificazione tra la squadra dalla camiseta blanca ed il potere centrista ha assunto significati politici ancora più pressanti nel 1939, in seguito alla decisione di Franco di annullare tutte le autonomie concesse in passato alla Catalogna e di contrastare in ogni modo la diffusione della cultura e della lingua locale. Il regime del “Generalissimo” durò persino più della presidenza di Bernabeu, ovvero 36 anni, e si concluse solo con la sua morte, avvenuta nel 1975. Gli anni della dittatura hanno consolidato la funzione del Madrid come macchina da propaganda di un governo che nel dopoguerra, avendo perso gli appoggi dell’Italia fascista e della Germania nazista, era totalmente isolato in campo internazionale.
Il ministro Solìs, tra il 1959 e il 1961, a più riprese parlò dei calciatori merengues come degli autentici ambasciatori del franchismo. Particolarmente indicativo dell’atteggiamento del regime nei confronti delle vicende calcistiche fu l’acquisto dell’argentino Alfredo Di Stefano, che nel 1953 era certamente il miglior giocatore del mondo. A prelevarlo dai Millionarios di Bogotà era stato in realtà il Barcellona, ma Franco intervenne personalmente per bloccarne il tesseramento ed impose che “per equità” il campionissimo si dovesse alternare tra le due migliori squadre del paese, militando per una stagione nel Barça e una nel Madrid! Scandalizzati da un sopruso così palese, gli “azulgrana” preferirono lasciare Di Stefano in toto ai madrileni, che grazie al suo apporto vinsero le prime cinque edizioni della Coppa dei Campioni, dal 1955 al 1960.
Il gravissimo episodio gettò benzina sul fuoco di una rivalità nata negli anni Venti, quando il Madrid, da poco divenuto “Real” e quindi simbolo della monarchia, voleva in tutti i modi contrastare la squadra catalana, che in quel periodo mieteva successi in serie. Nel 1925, il pubblico dello stadio Les Corts (che aveva una capienza di 30.000 spettatori) aveva contestato duramente l’esecuzione dell’inno spagnolo, suscitando una reazione molto dura da parte del potere centrale: oltre alla chiusura per sei mesi dell’impianto, le autorità imposero l’uscita di scena dello svizzero Hans Gamper, fondatore svizzero del club culè. Cinque anni dopo, Gamper morì e per il Barça cominciarono momenti duri, complicati ulteriormente dal decesso del nuovo presidente Josep Suñol, massacrato dalle milizie franchiste durante la guerra civile. Nel 1938 i fascisti occuparono Barcellona e, con un gesto particolarmente indicativo dell’importanza del calcio nella vicenda politica, la prima cosa che fecero fu piazzare una bomba nella sede del club “azulgrana”. Subito dopo, misero al timone della società un uomo di loro fiducia quale Enric Piñeyro, sotto la cui gestione venne modificata la denominazione del sodalizio: dall’originale “F.C. Barcelona” a un “Club de Fùtbol Barcelona” maggiormente in linea con gli ideali nazionalisti portati avanti da Franco. Solo nel 1973, con la morte del Generale, agli “azulgrana” fu consentito di tornare alle proprie origini.
Ulteriore privazione della propria identità subita dal Barça fu la rimozione della bandiera catalana (la senyera, con quattro righe orizzontali rosse su campo dorato) dalle maglie della squadra, dove comparve invece l’odiato vessillo spagnolo. Nella stagione 1942/43, Madrid e Barcellona si affrontarono nella semifinale di Coppa del Re e i catalani vinsero la gara di andata per 3-0. In occasione del ritorno al Bernabeu, la polizia locale minacciò i giocatori ospiti, invitandoli a “non creare problemi di ordine pubblico” con il loro comportamento: il messaggio era talmente chiaro che il Real Madrid vinse con un clamoroso 11-1, scandalizzando persino un collaborazionista come Piñeyro. Negli anni Cinquanta, il Barça visse un nuovo ciclo vincente che coincise con l’arrivo di Kubala ed il trasloco dal Les Corts al Camp Nou, inaugurato nel ’57. Al timone della società c’era Francesc Mirò-Sans, che aveva preso il posto di Carreto, dimissionario dopo l’umiliante “scippo” di Di Stefano. A guidare la squadra era invece Helenio Herrera, vincitore di due campionati e di una coppa nazionale che rilanciarono l’orgoglio catalano in relazione alle imprese sportive. Dopo il declino degli anni Sessanta, fu l’arrivo di Cruyff, nel 1973, a riaccendere l’entusiasmo, traghettando il Barcellona nell’era moderna del calcio e della politica post-franchista.
La Costituzione del 1978 definisce la Spagna “una monarchia ereditaria di tipo parlamentare”, nella quale il Re ha un ruolo di rappresentanza, ma anche di garante dell’unità e della democrazia. Gli anni della transizione hanno visto il calcio esercitare nuovamente una funzione primaria. Per il quanto il presidente esule del governo basco, Lezaiola, venne riammesso in Spagna soltanto nel 1979, già nel 1976 Barcellona riabbracciava Tarradellas, presidente della Catalogna. Il suo ritorno venne celebrato in un Camp Nou nel quale le senyeras avevano rimpiazzato le bandiere “azulgrana” e dove risuonava “Els Segadors”, l’inno nazionale catalano. Montal, presidente del Barça, rivolse a Tarradellas un discorso davvero molto esplicito: “Signor presidente, questo è un gran giorno per milioni di tifosi che hanno lottato per restare fedeli alle istituzioni da lei rappresentate, perché lei e il Barça siete la stessa cosa: una personificazione dell’identità e delle qualità del nostro popolo”.
Questo è ciò che intendeva Armand Carabèn, socio del Barça, quando inventò lo slogan “mès que un club”: il Barcellona non è e non sarà mai “soltanto” una squadra di calcio. Per i catalani, gli “azulgrana” sono una vera e propria rappresentativa nazionale, visto anche che da oltre un secolo la “vera” selezione della Catalogna conduce un’esistenza decisamente tormentata.
La Federaciò Catalana de Fùtbol venne fondata l’11 novembre del 1900 e il suo campionato cominciò persino prima di quello spagnolo, partito nel ‘29. La nazionale ha esordito nel 1904, ma non è stata mai riconosciuta da Fifa e Uefa e quindi ha sempre giocato solo amichevoli dimostrative. Se negli anni Venti alcune di queste esibizioni furono memorabili (con “il Divino” Ricardo Zamora che giocò prima nella Catalogna e poi contro la Catalogna, nel primo derby con la Spagna), con l’avvento di Franco le spinte autonomiste vennero pesantemente ostacolate, ma senza bloccare del tutto le attività della “nazionale fantasma”. Al contrario, vestirono la maglia della Catalogna anche alcune prestigiose guest-stars quali Suarez, Kubala e persino Di Stefano, anch’egli solidale con la causa indipendentista nonostante la particolare vicenda personale che lo aveva portato sulla sponda nemica, quella dei monarchici madrileni. Nel 1976, contro l’Unione Sovietica, giocarono anche gli olandesi Neeskens e Cruyff, il cui figlio Jordi sarebbe poi stato una colonna della squadra che in anni più recenti ha schierato anche Guardiola, Puyol, Xavi, Iniesta e Bojan Krkic.
La rivalità tra “azulgrana” e “merengues” – due tra le più importanti squadre non solo della Spagna, ma del mondo intero – è quindi solo marginalmente basata sulle vicende di campo, pertaltro piuttosto significative. La loro spaccatura riflette quella di un paese che ha due anime: quella castigliana, monarchica e conservatrice rappresentata dal Madrid e quella catalana, democratica e progressista incarnata dal Barça. I due poli opposti hanno trovato riflesso nella letteratura, con grandi scrittori quali Javier Marìas (tifoso madridista) e Manuel Vazquez Montalban (culè) che hanno utilizzato le simbologie calcistiche come snodi fondamentali della propria opera. Lo stesso è accaduto con la recente alternanza alla guida del governo tra Josè Maria Aznar (madridista di centro-destra) e Josè Luis Zapatero (barcelonista di centro-sinistra, nonché amico personale di Pep Guardiola, che ne ha appoggiato la campagna elettorale).
In quanto sinonimo di potere, il Madrid è spesso stato accusato di godere di una certa compiacenza da parte della classe arbitrale, in alcuni casi manifestamente parziale. La parte organizzata della sua tifoseria, inoltre, è marcatamente schierata a destra, come dimostra il folto campionario di svastiche, croci celtiche ed asci bipenni esposto sugli spalti del Bernabeu. Il gruppo più temibile nella curva del Madrid si chiama “Ultras Sur” e si rifà direttamente all’ideologia fascista in voga durante il franchismo. Gli aderenti a questa organizzazione si autodefiniscono “Vikingos”, terminologia che riporta al concetto di razza ariana, e per contrasto usa in senso dispregiativo i nomignoli “Indios” per i tifosi dell’Atletico Madrid e “Polacos” (“polacchi”) per quelli del Barça. Alcune recenti inchieste giudiziarie hanno dimostrato il legame esistente tra gli “Ultras Sur” ed il ramo spagnolo di “Hammerskin”, organizzazione internazionale di stampo hitleriano nata in America da una costola del Ku Klux Klan.
In Spagna, il fenomeno-ultras è cominciato all’alba degli anni Ottanta, a imitazione di quanto nella vicina Italia stava accadendo già da un decennio. Nel 1981 vennero fondati i “Boixos Nois” (in catalano, “ragazzi pazzi”), il primo gruppo organizzato della tifoseria “azulgrana”. Fortemente connotati per il loro desiderio di autonomia, gli ultras catalani si gemellarono con altre tifoserie che condividevano gli stessi ideali politici, quali le “Brigadas Amarillas” del Cadice e gli “Indar Gorri” dell’Osasuna. Nella lista dei nemici, oltre ai tifosi del Madrid, figuravano le “Brigadas Blanquiazules” dell’Espanyol e gli “L.F.N.” del Real Saragozza.
Nel 1986 ai “Boixos Nois” si iscrissero anche diversi skinheads che si riconoscevano nell’estrema destra: per il comune ideale di una Catalogna libera e indipendente dalla Spagna, fascisti e comunisti inneggiavano alla stessa squadra, fianco a fianco! Non tutti gli ultras “azulgrana”, però, accettarono di buon grado l’idea di mescolarsi con frange così distanti sul piano politico e, nel 1990, un gruppo di dissidenti dei “Boixos Nois” diede vita ai “Sang Culè”, formazione rigorosamente di sinistra.
Man mano che il nuovo gruppo ultrà cresceva di numero, attirando gli scontenti della vicinanza con gli skins, i tifosi destrorsi prendevano sempre più potere in seno ai “Boixos Nois”, che a fine anni Novanta erano a tutti gli effetti un’organizzazione reazionaria e, in quanto tale, osteggiata dal resto del Camp Nou. Il sentimento antifascista fece nascere nuovi gruppi come il “Komando Flipper” e il “Grup Fidel”, ma per debellare i “Boixos Nois” fu determinante l’elezione nel 2003 di Joan Laporta, un presidente dichiaratamente democratico e per nulla disposto a macchiare l’immagine del proprio club flirtando con organizzazioni neonaziste. Al contrario, Laporta ha difeso strenuamente la scelta (per molti anacronistica) di non “sporcare” la maglia “azulgrana” con uno sponsor, affermando che cedere alle ovvie considerazioni meramente commerciali avrebbe rappresentato un tradimento dell’identità progressista del club. A voler essere precisi, proprio Laporta ha dovuto prendere atto della difficile situazione economica ereditata dalle gestioni precedenti ed accettare la proposta commerciale di TV3, la televisione pubblica catalana. Tuttavia, il logo dell’inserzionista è stato collocato in una piccola patch applicata sulle maniche della divisa, non sul petto, e, in ogni caso, per una società come il Barça non è certo scandaloso instaurare una collaborazione con un’azienda che di fatto promuove la cultura catalana. Unica eccezione al purismo “azulgrana”, contrario ai marchi commerciali applicati sul cuore del giocatori, è stato l’accordo firmato nel 2006 con Unicef, “sponsor” ancora più particolare di TV3. Nel caso del Fondo delle Nazioni Unite per l’Infanzia, infatti, il logo non appare sulle camisetas in cambio di soldi, ma al contrario è il Barça che versa del denaro (circa 1,5 milioni di euro all’anno) all’organizzazione insignita con il Nobel per la pace nel 1965. Il marchio “Unicef” campeggia anche sulle maglie del Piacenza, che pur non essendo noto in campo internazionale quanto il club catalano può vantare un diritto di primogenitura, avendo cominciato la collaborazione nel 2002, e che contribuisce comunque alla causa donando il 7,5% dei suoi incassi e con il centro di accoglienza che ha costruito a Kinshasa, in Congo.
In quanto al Barcellona, in seguito c’è stata un’apertura totale agli sponsor commerciale, ma va detto che durante la presidenza di Laporta si sono intensificatele attività in campo sociale, sostenendo le vittime del conflitto israelo-palestinese, ma anche gli ex giocatori del club, riuniti in un’apposita fondazione. L’atteggiamento di Laporta era in linea con quello di Carles Puyol, la cui fascia di capitano riproduce la senyera catalana, e di Oleguer Presas, talmente fiero nel manifestare le proprie idee indipendentiste e socialiste da essere accusato di resistenza a pubblico ufficiale in occasione di una delle tante manifestazioni alle quali ha partecipato.
E’ per questo forte senso di appartenenza che chi passa dall’altra parte della barricata viene vissuto come un vero e proprio “traditore”. Il riferimento è ovviamente a Luis Figo, che nel 2000 lasciò il Barcellona per il Real Madrid, sedotto dalla maxiofferta di 120 miliardi di lire presentata da Florentino Perez. L’imprenditore e politico madrileno sfruttò il clamore suscitato dal suo colpo di mercato per convincere i soci del club a votare in massa per lui, ottenendo così il suo primo mandato alla testa delle “merengues”. Ma tutte le medaglie hanno due facce e a fare da contraltare all’entusiasmo dei “blancos” ci fu l’incontenibile furia dei suoi vecchi fans. In occasione del suo ritorno al Camp Nou, nella prima edizione del “Clàsico” giocata con la maglia del Madrid, il portoghese venne fatto oggetto di un fitto lancio di oggetti da parte del pubblico, compresa una testa di maiale lanciata dagli spalti e caduta a pochi centimetri dal portoghese, giusto per fargli capire chiaramente quale fosse la considerazione dei catalani nei suoi confronti!
Per quanto la rivalità più sentita da parte dei tifosi del Barcellona sia di gran lunga quella con il Madrid, non sono certamente amichevoli i rapporti con i fans dell’altra squadra cittadina, l’Espanyol. Lo si capisce già dalla denominazione completa della società: Real Club Deportivo Espanyol, con quel doppio riferimento alla monarchia ed all’autorità centrale che un vero catalano non può accettare. Fondato nel 1900 (un anno dopo il Barça), il club scelse un nome autoctono non tanto per ragioni politiche, quanto per differenziarsi dalla maggior parte degli altri club, che recavano denominazioni straniere in omaggio ai loro padri fondatori, quasi sempre britannici. La scelta dei colori sociali, inoltre, fu un chiaro omaggio alla Catalogna: il bianco e il blu comparivano già sullo stemma araldico dell’ammiraglio Roger de Lluria, che nel Medioevo solcava il Mediterraneo per proteggere gli interessi del lembo orientale estremo della Spagna.
La connotazione politica del club mutò nel 1912, quando il già citato Alfonso XIII gli conferì l’appellativo “Real”. Va anche segnalato che è solo dal 1995 che “Espanyol” viene scritto alla catalana: in precedenza, il club si chiamava “Español”, in castigliano. Per via del loro chiaro legame con il nazionalismo, i “Periquitos” (“pappagallini”) divennero molto cari alle forze armate e in generale al regime di Franco, con il quale stabilirono rapporti di vera e propria connivenza durante la guerra civile. Due volte finalista sfortunato in Coppa Uefa e mai campione di Spagna, l’Espanyol ha comunque avuto occasione di schierare diversi giocatori che, prima o dopo l’esperienza biancazzurra, hanno giocato anche coi cugini.
Il più famoso è stato certamente Ricardo Zamora, che in seguito ha lavorato per il club anche come allenatore, ma la lista comprende anche Laszlo Kubala, Jordi Cruyff, Steve Archibald, Ivan De La Peña e Samuel Eto’o. Il grande Alfredo Di Stefano ha chiuso la carriera, a 40 anni, con la maglia dell’Espanyol, fieramente vestita anche da Raùl Tamudo, simbolo dei “Periquitos”, ma anche membro della nazionale catalana e convinto fautore dell’indipendenza da Madrid, al punto da aver bandito la lingua spagnola nelle sue conversazioni private, esattamente come Oleguer.
Nel 1907 venne fondata la terza squadra di Barcellona: il Club Esportiu Europa, che ancora esiste, sebbene pochi lo sappiano, essendo da anni sprofondata nei meandri delle serie minori. All’inizio della sua storia, l’Europa rappresentava principalmente gli abitanti di Gràcia, piccolo comune alle porte di Barcellona che, con l’espansione urbanistica, venne assorbito nella città sino a diventarne un quartiere. La denominazione “internazionale”, così contrastante rispetto al minuscolo territorio di riferimento, venne scelta in maniera casuale: era da poco fallita una società chiamata F.C. Europa e i fondatori ne approfittarono per aggiudicarsene il titolo sportivo, saltando così alcuni passaggi burocratici altrimenti necessari per registrare una nuova denominazione sociale.
I gracienquens (gli abitanti di Gràcia) solitamente tifano per l’Europa, ma anche per una delle due grandi cittadine, Barça o Espanyol. Eppure, la terza formazione catalana ha avuto l’onore ed il merito storico di aver contribuito alla fondazione della Primera Divisiòn. Era il 1928, anno nel quale l’Europa era stato protagonista anche del Campeonato de España, antesignano dell’attuale Coppa del Re. Dopo aver eliminato Siviglia e Sporting Gijòn, i biancazzurri si qualificarono per la finale contro l’Athletic Bilbao, in programma al Les Corts.
Pur partendo sfavoriti per via delle numerose assenze, i baschi riuscirono a conquistare il titolo grazie al gol segnato da Travieso dopo mezz’ora di gioco e ad una strenua difesa, che vide nel portiere Vidal e nella buona sorte le armi vincenti. I dirigenti del Barcellona, padroni di casa del Les Corts, durante la partita parteggiarono per l’Athletic, facendo uno sgarbo che l’Europa non ha ancora dimenticato: al centenario del club sono state invitate Osasuna ed Espanyol, ma non le autorità “azulgrana”!
E dire che nell’era moderna la principale attività dell’Europa riguarda il settore giovanile, autentico fiore all’occhiello del club. Tuttavia, quando capita di incrociare il grande Barcellona, le energie si moltiplicano e l’utopia diventa possibile: chiedere per referenze a grandi campioni come Amor, Stoitchkov e Xavi, sorprendentemente sconfitti sia nel 1997 che nel 1998 nella finale della Coppa Catalogna.
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